Il Mal d’Africa cinquant’anni dopo
Sono passati tanti anni dal mio interscambio, ma certi problemi, nel mondo, persistono. Sostengo ancora Comundo perché mi fido, so come lavora e so che ne vale la pena.

Una delle prime cose che ho fatto è stata togliere l’orologio; poi non l’ho mai più messo. In Ciad si guardava il cielo per orientarsi e si imparava ad aspettare. Si viveva in un modo semplice, si accettavano le cose che capitavano. È stato molto arricchente. In questo ambito, la mia impressione è che si riceve molto di più di quello che si dà... Questo atteggiamento positivo, leggero, profondo, me lo sono cucito addosso e ancora oggi soffro di Mal d’Africa. L’accoglienza che ho trovato lì mi è sembrata la dote più importante di un popolo, perché arrivi da qualcuno e ti senti benvoluto; qui è andata completamente persa.
Erica Bettosini, puericultrice,
ha lavorato a Moundou,
al Dispensario della Missione
Cattolica in Ciad, in un progetto
di animazione rurale con
e per le donne della regione.
Ero giovane e facevo la puericultrice. Ho studiato a Lugano poi sono andata a Neuchâtel per lavorare al reparto di maternità e lì ho conosciuto una ragazza che si preparava a partire in “missione”, come si diceva all’epoca, con i Frères Sans Frontières, organizzazione svizzero-francese di cooperazione. Mi incuriosiva. Così l’ho seguita agli incontri che si svolgevano per i futuri volontari ma aperti anche a chi aveva voglia di imparare qualcosa sul mondo e discuterne. Erano anni di rivelazione: noi giovani volevamo sapere, approfondire, uscire dai percorsi. Ho pensato che sarebbe piaciuto anche a me svolgere un’esperienza di cooperazione all’estero e ne ho parlato con i miei genitori.
Mio papà era molto reticente, invece mia mamma, che era nata nel 1912 e avrebbe sempre voluto viaggiare ma non ha mai potuto, mi diceva: «Vai, vai, vai a scoprire quello che c’è. Poi torna e racconta».
Così, ho deciso di seguire la formazione e di aspettare l’occasione per partire in “missione”. Quando è arrivata, Padre Silvio Bernasconi mi ha chiamata dal Ticino e mi ha proposto di partecipare alla cerimonia di saluto e benedizione che si sarebbe svolta nella Cattedrale di Lugano. Padre Silvio aveva appena fondato l’associazione corrispondente dei Frères Sans Frontières: Solidarietà Terzo Mondo. C’erano altri tre volontari che stavano per partire dal Ticino: Agnese Brugnoli Balestra, Enzo Brugnoli Balestra e René Marty. Eravamo i primi quattro cooperanti...
ANDARE
Gestivamo un dispensario in un villaggio del Ciad, dove davamo corsi di igiene rivolti alle mamme, creavamo animazioni con le donne e i bambini del paese, insistevamo sull’importanza di bollire l’acqua e svezzare i bambini già prima dei due anni, per prevenire la malnutrizione e la colonizzazione di parassiti. La mortalità dei bambini era alta. Le donne venivano da noi per partorire, per imparare a cucire, per ricevere informazioni e cure. C’era un’infermiera che lavorava al dispensario, mentre io facevo più animazione rurale sul terreno, per l’alimentazione e l’acqua.
I primi giorni, un missionario mi ha detto porgendomi un bicchier d’acqua filtrata: «Se ti entra dentro un moscerino, buttalo e riprendine un altro. Ma vedrai: tra un po’ di settimane toglierai semplicemente il moscerino e berrai l’acqua; poi, tra qualche mese, berrai l’acqua con dentro il moscerino». Ho riso però aveva ragione. Quello che mi resta ancora oggi è quel vabbè, questa bellissima parola che ogni tanto va detta, per vivere meglio.
Quello che resta del nostro lavoro, invece, è che dopo che sono partita io, al dispensario, non hanno più assunto un cooperante: due donne che lavoravano con me hanno ripreso l’attività. Erano loro che organizzavano la prevenzione dei parassiti dovuti all’alimentazione e che insegnavano le norme igieniche utili per la salute. Oggi se ne sono andate anche le suore straniere e resta solo personale locale. Questa è la conquista.
Lo scopo deve essere formare
e rendere indipendenti.
Andare in un posto solo se ti
hanno invitato. Lavorare insieme
solo se non stai prendendo
il posto di qualcun altro.
TORNARE
Abituarsi a quel mondo non è stato difficile, perché tutti erano ospitali. Il lavoro era interessante, la gente amica, la vita semplice. È il ritorno che è più laborioso. Può sembrare paradossale, ma riabituarmi a casa mia mi ha preso anni. Quando sono rientrata in Ticino nel 1973, pensavo di ripartire presto, ma mia madre è morta proprio in quel periodo e non ho avuto cuore di lasciare da solo mio padre. Lui, che all’inizio non voleva lasciarmi andare, è poi diventato amico di Padre Silvio e di tutta la gente di Solidarietà Terzo Mondo che continuavo a frequentare.
Ci vedevamo per serate e conferenze, ma anche per vendemmiare e aiutare mio papà a fare il fieno d’estate. Una volta ci siamo trovati di domenica e ho chiesto a Padre Silvio se poteva lavorare lo stesso: «Il Signore ha creato la domenica per l’uomo, non l’uomo per la domenica», mi ha risposto.
Una volta rientrata in Ticino ho ripreso il lavoro in un asilo nido gestito da suore ma non mi sono trovata bene. Qui le suore erano più chiuse, davano molte regole ai bambini che mi sembravano esagerate: non dovevano sporcarsi, erano iperprotetti. Ho provato a cambiare mestiere ed è andata meglio: sono diventata aiuto di cura a domicilio. Entravo nelle case e stavo a contatto con la gente: mi piaceva di più. Piano piano mi sono sentita di nuovo a mio agio. Mi aiutava continuare a frequentare il gruppo di Solidarietà Terzo Mondo, stare con chi era tornato da un viaggio, con chi doveva ancora partire. Era una comunità: ci si trovava al Convento del Bigorio, ognuno portava qualcosa da mangiare che si condivideva, ci si scambiavano opinioni, informazioni... si stava insieme.
Nel villaggio in Ciad avevo visto
una libertà, un contatto fra
persone, una fecondità dei
rapporti che qui non trovavo e
facevo fatica ad accettarlo.
UN SEME CHE VIAGGIA LONTANO
In Africa ci sono tornata nel 1977, in Togo con Angela Foglia Manzillo, segretaria di Solidarietà Terzo Mondo che si era innamorata di un ragazzo togolese che studiava in Svizzera e voleva andare a vivere là con lui. Abbiamo fatto questo viaggio insieme, per lei di scoperta, mentre per me è stato un ritorno a casa. Ho riconosciuto l’accoglienza calorosa che conoscevo, i nugoli di bambini sorridenti intorno, l’intensità delle relazioni. Ho rivissuto le messe in chiesa con la musica, i gesti e il corpo. Angela si è sposata nel 1980 e dal 1987 vive in Togo con suo marito.
Invece io sono tornata in Ticino, mi sono sposata e ho avuto un figlio. Penso che anche lui, fin da bambino, ha raccolto i frutti della mia esperienza. Penso di avergli trasmesso un po’ di quella pace che ho ricevuto nei due anni in Ciad, un po’ di quei valori di sobrietà e tranquillità che mi hanno sempre accompagnata. Lui oggi sta nel Canton Vallese, è agricoltore, sua moglie è infermiera, lui lavora al pomeriggio e lei la mattina, hanno due bambine che crescono in mezzo a galline, conigli, filari di vigna. Anche la famiglia di mio figlio sa che non importa tanto il denaro o il patrimonio materiale, ma qualcos’altro. Un po’, credo che questa sua consapevolezza derivi anche dal mio percorso. È incredibile, no, che ricadute possono avere due anni di vita?